lunedì 11 giugno 2012

Il Cinema Horror: la maschera del male

Tutto ciò che è profondo ama la maschera; le cose più profonde hanno per l’immagine e l’allegoria perfino dell’odio. (…) Ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera: e più ancora, intorno a ogni spirito profondo cresce continuamente una maschera, grazie alla costantemente falsa, cioè superficiale interpretazione di ogni parola, di ogni passo, di ogni segno di vita che egli dà ….la vita” e la “verità” non possono coesistere, perché se la verità della vita dell’individuo è nel suo essere strumento della conservazione della specie, l’individuo per vivere deve illudersi, indossando quella maschera che chiama “Io”, e quindi fuoriuscire dalla verità della sua vita…
Nietzsche/Schopenhauer

Se pensiamo un momento al cinema horror degli ultimi 30 anni e lo associamo al genere thriller italiano ci accorgiamo immediatamente di un particolare: la definizione stilistica del male e della sua impersonificazione è assai differente: il “cattivo” e la sua “pittorica riproduzione” cambia a seconda della cultura da cui è prodotta senza standardizzazioni prevedibili o apparentemente ovvie. Lo strumento di delineazione del malvagio più diffusamente utilizzato è senza alcun dubbio la maschera (incerta l’origine del termine: una prima ipotesi la vorrebbe di origine preindoeuropea, da masca cioè fuliggine, fantasma nero). Questo stratagemma ha permesso dunque una vera e propria estetizzazione della violenza composta da un macro universo di segni riconoscibili di cui la maschera è certamente il capostipite assoluto.

A questo oggetto così misterioso è inoltre mescolata un’alternanza di terribilità e intelligenza attraverso degli espedienti narrativi che mirano ad aumentare l’eccitazione e l’entusiasmo nei momenti precedenti un’aggressione feroce (un significativo esempio è la rappresentazione del maniaco Hannibal Lecter protagonista del Silenzio degli innocenti) provocando una catarsi definita, da molti critici, un’accettabile sfogo di impulsi anti-sociali. Dunque all’apparente tendenza di pensiero che vede nei film horror una missione disumanizzante si alterna un pensiero più creativo e significativo sul ruolo sociale e psicologico dell’oscurità rappresentata al cinema.
E’ certamente però in America che questo elemento ben preciso (la maschera) tende a riproporsi in maniera programmatica; una reiterazione che finisce per delineare personaggi destinati a mitizzarsi, a cultizzarsi nell’immaginario sfrenato dei fan. A differenza del thriller alla Dario Argento, nel quale il maniaco non è posto davanti alla macchina da presa se non nelle ultime sequenze del film o ad uno stile kubrickiano, l’horror americano, a partire soprattutto dagli anni ’80, ha costruito i propri successi su personaggi soggettivizzati da una costume “allegorico”, simboleggiante un’interiorità oscura e minacciosa.
Non Aprite quella porta (1978), Halloween (1978 è considerato il primo degli slasher moderni a cominciare da Psyco di Alfred Hitchcock, il film ha reso famosi molti principi che continuarono a mostrarsi negli slasher degli anni seguenti), Venerdì 13 (1980) Nightmare – Dal Profondo della Notte (1984) e il più recente Scream (1996) sono alcuni dei titoli di film cult, saghe che costruiscono la loro fortuna non tanto sui personaggi demoniaci ed assassini di turno quanto sulla loro caratterizzazione: tutte queste pellicole infatti esaltano il concetto di estetizzazione del male, forniscono cioè una rappresentazione visiva dell’inconscio e dello sdoppiamento.
Se per la realizzazione di Freddy Krueger, Wes Craven, scelse delle bruciature su un volto scoperto, il volto di un’anima bruciata dalle fiamme dell’inferno che sarebbe diventata la sua forza comunicativa grazie all’ottima interpretazione dell’intramontabile Robert Englund, per Jason Voorhees e Michael Myers risultò determinante l’effetto-maschera rappresentato nel primo caso da un sacchetto prima e una maschera da hockey (simbolo di potenza e forza) dopo e nel secondo (e qui compare un elemento ancora più interessante) un volto fittizio, serio, freddo, quasi inumano. Un volto per sostituire un volto? Questa è di fatto la scelta nella rappresenzazione del killer di Halloween: la sua maschera, infatti, avrebbe dovuto trasmettere insensibilità, vuoto, oscurità e fermezza…insomma una totale assenza dell’anima.

Ultima considerazione riguardo la scelta dell’urlo di Munch nella creazione del killer di Scream: in questo caso si è scelta la depersonalizzazione, è la più “artistica” la meno convenzionale e forse anche la più “artificiale” maschera filmica stile horror. Efficace e pungente, l’Urlo è così entrato nell’universo estetizzante, simbolo di una violenza futile, trasformata in mero intrattenimento e allo stesso tempo in fuga dal vuoto della distopia della società a cui appartengono le nuove generazioni. Dietro di essa non esiste nessun macabro ideale, nessun movente, in un delirio però assoluto, incontrollato ed ancor peggio assolutamente immotivato. Questa sua caratteristica la rende, in conclusione, più somigliante al volto impenetrabile di Michael Myers piuttosto che alla grottesca ironia di Freddy Krueger.

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