giovedì 13 settembre 2012

Prometeo: ladro o eroe


Quando vedi un’opera teatrale greca in un teatro greco, capisci. Capisci che il teatro era per i Greci, e lo è ancora oggi per noi, qualcosa di sacro; che è un momento sociale, di incontro e conoscenza con l’altro, ma allo stesso tempo anche un momento estremamente intimo che ti costringe a confrontarti con te stesso. La tragedia parla a tutti e parla direttamente ad ogni spettatore. Di certo sono i testi, classici, forti e attuali a secoli di distanza dalla loro scrittura, che portano a questo sommovimento di sentimenti e pensieri, ma questa stessa forza viene amplificata esponenzialmente dalla struttura del teatro: la bellezza, la natura che entra nella rappresentazione, la luce naturale che all’inizio abbaglia e avvolge tutto, riflessa dalle pietre bianche del teatro, e che al tramonto invece rende tutto romantico e mistico, l’acustica, le voci degli attori e i loro volti che in realtà non si vedono, o, per gli antichi Greci, perché coperti da maschere, o perché, per noi oggi, comunque più lontani che in un teatro moderno. I testi colpiscono per la poesia e per il pathos e nel momento in cui si pensa che prevalga la poesia ecco che si viene colpiti, come un pugno nello stomaco, dal pathos dell’azione scenica e viceversa, proprio perché la “formula segreta del dramma greco sembra un equilibrio perfetto di forma e contenuto che combina temi forti con strutture drammaturgiche e linguistiche di enorme potenza espressiva.”[1].

Esempio, atipico per alcuni versi e invece emblematico per altri, della tragedia greca è il Prometeo. Il testo è dedicato al titano amante degli uomini a tal punto da mettere a rischio se stesso pur di donare il fuoco all’umanità.
Il testo greco pervenuto fino a noi è il Prometeo incatenato di Eschilo ed innumerevoli sono i rimaneggiamenti che ha inspirato, come il Prometheus di Ridley Scott giusto per citare l’ultima rilettura. Il testo è difficile alla prima occhiata, non cattura immediatamente con le grandi passioni che associamo alle tragedie greche, ma ad una più attenta lettura si scopre un testo ricco di pathos, nascosto dietro l’apparente staticità della rupe a cui Prometeo è incatenato per una punizione divina.

Il testo, a prima vista, quindi, non appare come una “tragedia” in senso classico, ma Prometeo può essere considerato un eroe tragico a tutti gli effetti, alla pari di Achille, dove la forza e il valore fisico vengono sostituiti dalla forza dell’intelletto e dal valore dell’animo. La statura eroica di Achille, infatti, risiede nella sua scelta di accettare la morte e il dolore e di fronteggiare l’ineluttabilità del destino, pur di vendicare l’uccisione di Patroclo, consapevole che il suo destino è di morire in guerra, se tornerà a combattere.[2] Anche Prometeo, pur consapevole della punizione che lo attende, sceglie di rubare il fuoco agli dei e di donarlo agli uomini. Scelta e consapevolezza, tratti emblematici dell’eroe greco, che ritroviamo anche in questo eroe immobilizzato. I protagonisti della tragedia greca, infatti, “sono sì vittime del destino e anche delle proprie colpe ma, nel momento della sofferenza, acquistano quella dignità e quella nobiltà, che prima non avevano.”[3]. Entra quindi in scena un nuovo concetto chiave della tragedia greca: la colpa, a prescindere che sia volontaria o involontaria. E Prometeo di certo ha una grande colpa, è un ladro, ha rubato un bene preziosissimo, il fuoco, che avrà conseguenze inimmaginabili per l’umanità.




[1] M. Treu (2009), Il teatro antico nel Novecento, Le Bussole (346) Roma, Carocci editore, p.100.
[2] G. Guidorizzi (2000), L’età classica vol. 2 de Il mondo letterario greco, Milano, Einaudi scuola, p. 43.
[3] G. Antonucci (2008), Storia del teatro greco e latino. Da Eschilo a Seneca, Roma, Edizioni Studium.

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