Dal 16 ottobre 2012 al 4 novembre 2012 va in scena, al Teatro Elfo
Puccini di Milano, La discesa di Orfeo,
dramma datato 1957 di Tennessee Williams. La regia è stata affidata a Elio De
Capitani, colonna dell’Elfo, che, dopo il debutto di questa estate al Festival dei due mondi di Spoleto, lo porta
in scena per la prima volta in Italia. Dallo stesso testo è stato tratto anche il
film Pelle di Serpente del 1959 con
Anna Magnani e Marlon Brando.
Il testo è ambientato in un paesino qualsiasi del profondo sud degli
Stati Uniti all’epoca del Proibizionismo e della Grande Crisi del ’29 e, di conseguenza,
contrassegnato con forza dai temi del razzismo e del continuo dualismo tra modernità
e convenzioni. É pregnante la dominazione WASP (White Anglo-Saxon
Protestant, ovvero bianco, anglo sassone e protestante, acronimo usato per
identificare l’etnia predominante negli Stati Uniti, ovviamente valida solo per
gli uomini), la paura del diverso ed il disprezzo della donna, alla quale
Williams, però, non da di certo un ruolo secondario.
Il personaggio principale, infatti, è Lady (Cristina Crippa), donna
non più giovane di origini italiane, comprata in gioventù dall’ormai malato ed
anziano Jabe (Luca Torracca) che ebbe un ruolo chiave nel suo dramma di
gioventù. L’odio di Lady nei confronti del marito caratterizzerà tutto il loro
matrimonio, raggiungendo l’apice con l’arrivo del giovane Val (Edoardo
Ribatto), bello e maledetto, che, toy boy
ante litteram, diventerà commesso ed amante di Lady.
Gli attori, tutti già molto apprezzati in altre messe in scena, non
deludono, bravi, convincenti, forti ed affiatati. Il testo, è quasi
equiparabile alla tragedia greca per la continua crescita di pathos che si
risolve nel dramma finale. Persino i personaggi apparentemente secondari sono fondamentali,
sfaccettati e con una presenza scenica non da meno di quella dei personaggi
principali. Il coro, composto dagli attori stessi, ha un ruolo importante per l’azione
scenica.
De Capitani decide di mettere in scena questo dramma come se si assistesse
ad una prova teatrale. Gli attori, infatti, sono già tutti in scena quando il
pubblico entra, e sarà così per l’intera durata dello spettacolo. Sono seduti
intorno al tavolo in una qualsiasi sala prove che non riproduce fedelmente gli
ambienti richiesti dal testo di Williams, ma li cita efficacemente. É
riconoscibile il regista (sciarpa e occhialetto tondo ne incarnano lo
stereotipo perfetto) che legge le prime indicazioni e didascalie. Per tutto lo
spettacolo gli attori giocheranno con lo spettatore diventando personaggio e, improvvisamente,
voce fuori campo, che legge le indicazioni di regia lasciateci dall’autore,
facendo, così, emergere le psicologie sfaccettate dei personaggi. Lo spettatore
si trova spaesato e, quindi, più vigile, attento, in questo fuoco incrociato tra
spettacolo e meta-spettacolo.
Insieme agli attori è sempre in scena una chitarrista che con la sua
chitarra elettrica sottolinea l’azione.
Sulla carta lo spettacolo avrebbe tutte le carte in regola per essere
un capolavoro ma, purtroppo, la sensazione che prevale è di incompletezza, di “mancanza
di qualcosa”. Come se si fosse davanti ad un puzzle bianco: tutti i pezzi si
sono incastrati alla perfezione, non ci sono altre possibilità di giungere alla
soluzione, eppure, il puzzle finito non restituisce un disegno, ma un
rettangolo bianco.
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